STORIA

IL TABARRO: UN CAPO CHE ATTRAVERSA LA STORIA

IL TABARRO:
UN CAPO CHE ATTRAVERSA LA STORIA

L’etimologia del termine “tabarro” è incerta, sembra risalga al latino tardo tabardus- tabardum, e indicava sia il mantello che la veste o la toga.
Il tabarro fa la sua comparsa nell’antica Roma e nel corso dei secoli ha conosciuto fogge, colori e tessuti diversi, rimanendo sempre fedele a ciò che lo contraddistingue: taglio del panno a vivo, una sola cucitura e colletto.

Nel Trecento, a Venezia come in Toscana, è una sopravveste lunga, con maniche ampie ma non lunghe, indossata da medici, magistrati, mercanti ed ecclesiastici. Solitamente semplice e privo di raffinatezze, ha forma rettangolare ed è realizzato in seta, in panno nero o foderato di pelliccia, a volte accompagnato da un cappuccio.

 

Nel corso del Cinquecento il termine tabarro è usato sia per un’elegante giacchina corta con maniche, aperta sul davanti, sia per la divisa portata dai galeotti del remo. Alla fine del secolo diventa il mantello che copre le spalle di cittadini, mercanti e viaggiatori e solo nel Seicento, comincia ad essere usata anche da nobili, funzionari e magistrati al posto della veste patrizia.

Nel Novecento diventa simbolo di eleganza e signorilità anche se alcune “variazioni sul tema” vengono usate dai contadini (il “tabarrino”, più corto per ragioni pratiche) o dalle truppe al fronte. Il tabarro è spesso anche il simbolo dell’italiano che parte per il Nuovo Mondo: gli archivi sono pieni di immagini di uomini avvolti nei loro tabarri che sbarcano a Staten Island o a Buenos Aires.

Nel secondo dopoguerra il tabarro cade in disuso, a volte addirittura vietato perché identificato con il capo “simbolo” degli anarchici o, nella maggior parte dei casi, sostituto dal cappotto.
Bisogna spettare l’inizio degli anni Settanta per vederlo ricomparire sulla scena, in occasione di Pitti Uomo, quando Sandro Zara, convinto sostenitore del suo uso e deciso a recuperarne la memoria, lo ripropone al pubblico del fashion system.

“Mi affascina la storia del costume, la ricerca del bello nella tradizione, soprattutto nella mia tradizione lagunare”

Imprenditore veneziano che da oltre 50 anni coniuga costume e moda, Sandro Zara produce tabarri dal 1974 attraverso l’Artigiana Sartoria Veneta. Lavora da sempre nel settore dell’abbigliamento e della moda che considera espressione di cultura e di appartenenza.

L’amore e il rispetto per le cose del passato, la passione per il tessile e il fascino che esercitano su di lui le materie prime, come le lane povere, gli fa riscoprire il tabarro, indumento che aveva visto indossato dai nonni. Inizia a collezionare abiti della tradizione veneta: mantelle, pastrani e uniformi dimenticate o non più in uso.

Forte della curiosità che da sempre lo accompagna, si immerge nelle ricerche e nello studio nelle stanze del museo di Palazzo Mocenigo e del Museo del Mare di Chioggia, negli archivi tessili di vecchi lanifici ormai chiusi, fra le numerose collezioni private e pubbliche, nelle case e nei palazzi della Terraferma e della Laguna e ritrova storie, modelli, misure autentiche e tessuti capaci di proteggere dal vento e dal freddo.

“Sono nato controcorrente e non mi sono mai allineato”, ama raccontare Sandro Zara e con le sue parole dà ragione, corpo e anima a un lavoro fatto di studio, ricerca e passione, spesso così lontano dalle moderne logiche di produzione e di mercato.

IL TABARRIFICIO VENETO

“Una storia di passione per la tradizione unita a una sapiente maestria sartoriale”

Nel 1974, sulla scorta di amore e intuizione, nasce il Tabarrificio (neologismo coniato da Sandro Zara) Veneto, il primo esistente in Italia, spazio della memoria dove passato e futuro convivono. Il successo non è immediato forse perché il mercato non è ancora pronto alla ricomparsa di un capo che, in quel momento, è indossato solo dai pochi arrotini e spazzacamini che operano nel territorio veneziano. La profonda convinzione della “novità” costituita dal tabarro, spinge Zara a proporlo a Pitti Immagine dove, nonostante il risultato commerciale ancora limitato, riscontra attenzione ed apprezzamento da parte degli operatori del settore.

A partire da quella data la produzione diventa costante lungo tutto l’anno e il Tabarrificio Veneto è consacrato luogo in cui sono custoditi i segreti per la confezione del capo, frutto di anni di studio e ricerche, e un considerevole archivio di capi storici, degno di un museo, provenienti da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, prezioso materiale da cui trarre spunto e ispirazione.

Dei vecchi modelli Sandro Zara ripropone la funzionalità e la praticità di tagli e tessuti che non hanno tempo, cogliendo dettagli e frammenti di un passato a rischio di estinzione. I tabarri vengono disegnati, tagliati e cuciti uno ad uno da abili artigiani e sarti di provata e lunga esperienza. Ogni capo è curato nei minimi dettagli: dal taglio del tessuto Italico, l’unico che permette il taglio al vivo, alla perfezione dell’unica cucitura consentita dalla tradizione, alla costruzione e confezionamento del collo, il dettaglio più complesso da realizzare.

I filati più rustici sono prodotti nell’entroterra veneto, in collaborazione con una cooperativa di pastori, mentre per i tessuti più fini ci si affida al più prestigioso lanificio biellese.
Fedele alle tradizionali tecniche di produzione e a tutela dell’autenticità dei propri tabarri, il Tabarrificio Veneto numera progressivamente ogni singolo capo e lo marchia con un nome proprio: Brigantino, Nobilomo, Lustrissimo, Ruzzante, Ca’ D’oro, Hepburn, sono solo alcuni dei modelli proposti per l’uomo e la donna i cui nomi derivano da chi li indossava e dai luoghi in cui sono stati rintracciati i prototipi.
Indossare un tabarro, con quel gesto unico e ben preciso, equivale a compiere un viaggio nella storia, nella tradizione e nella cultura di tempi passati, consente di recuperare e sentire sulla propria pelle un senso di protezione e di appartenenza a valori antichi ma sempre attuali. Come scritto su un importante quotidiano nazionale, “i tabarri di Sandro Zara non coprono, ma rivelano. Chi siamo stati, cosa potremmo essere”.Negli anni Novanta il tabarro diventa collezione e si arricchisce di accessori che lo completano: la mazziniana e il fiocco anarchico, il mascherone, il cappello Liston, il profumo venduti in tutto il mondo.